INCONTRI Raponi, la più antica libreria di Monteverde, dal cuore “militante”

Incontro con Federico Raponi che, con il fratello Francesco, rappresenta la seconda generazione dell’insegna di famiglia, attiva dal 1956. E che da qui prosegue il suo lavoro ormai trentennale di intellettuale libero, testimone dell’ultima grande stagione romana di movimentismo collettivo Di Marina Greco

A Monteverde nuovo c’è un negozio che ha una storia unica. Una insegna la cui vicenda familiare si intreccia a quella collettiva. Qui, nel 1956, un 19enne del Pigneto, Fernando Raponi, rileva una cartolibreria (che oggi, al traguardo dei 69 anni, è quindi la più antica del quartiere e tra quelle storiche della città). Si trova alla fine della circonvallazione Gianicolense che, all’epoca, era una lunga strada che da Trastevere saliva lungo un colle, affiancata dalle rotaie di un piccolo tram e da una serie di palazzi da poco costruiti. Tutto intorno una periferia: una fabbrica (la Purfina), prati, sentieri sterrati, fossati, marrane, canneti, osterie e villini di inizio ‘900 immersi in un paesaggio ancora agreste, squarci d’orizzonte da cui si intravede il mare. “Ai margini della metropoli” come Carlo Lizzani chiamò il suo film del 1952 proprio qui ambientato.

Era normale che in quegli anni, feriti ancora dalla guerra, accanto al negozio di Fernando ci fossero delle misere baracche, le casermette, abitate di chi aveva perso tutto nei bombardamenti. Sarebbero state demolite di lì a pochi anni, spianate dai lavori di costruzione di una tangenziale per le Olimpiadi del 1960. I loro poveri abitanti di nuovo sfollati, nelle ancor più periferiche borgate del Tufello e di San Basilio. A quei tempi era anche normale che, attaccato a tanta miseria, ci fosse un cinema, il “delle Terrazze” (perché a quell’epoca i sogni erano fatti anche di celluloide) nel cui pubblico potevi trovare, l’uno accanto all’altro, il baraccato e l’impiegato, la prostituta (ce n’erano nelle casermette) e la massaia e tanti ragazzini che magari fino a poco prima si erano presi a sassate (irriducibile la rivalità tra quelli che abitavano nei palazzi borghesi ed i “grattacelini” della vicina borgata di piazza di Donna Olimpia). Ma anche intellettuali, poi passati alla storia. Se è probabile che tra il pubblico ci siano passati Gianni Rodari, Giorgio Caproni ed Attilio Bertolucci con i figlioletti Giuseppe e Bernardo, di certo vi andava Pier Paolo Pasolini (che abitava con la madre in due stanzette nella vicina via Fonteiana, al civico 86) e che il “delle Terrazze” immortalò nel suo romanzo “Ragazzi di vita” del 1955. E’ poi molto probabile che di Raponi, unica cartoleria di zona all’epoca, Pasolini fosse cliente. Quando Fernando approdò a Monteverde, lo scrittore aveva composto le poesie finali de “Le ceneri di Gramsci”, tra cui “Recit” (datata proprio 1956) in cui esprime lo sgomento vissuto alla notizia – ricevuta dall’amico Attilio Bertolucci – della prossima denuncia per oscenità per “Ragazzi di vita”. Versi con cui Pasolini ci riporta una istantanea del proletariato romano di allora: “Com’era nuovo nel sole Monteverde vecchio! Con la mano ferito, mi facevo specchio per guardare intorno viali e strade in salita vivi di gente nuova nella sua vecchia vita” tra “canti lieti e feroci di garzoni, di serve e d’operai perduti su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti”, dove “tutto tremava di martelli da assolati cantieri ad assolati sterri. Ma era solo un fervore di gente umiliata”, “rassegnata a esser vinta, a brulicare oscura” in “un clamore che la storia non sente”. Affascinante poi immaginare che il poeta Giorgio Caproni, maestro elementare alla scuola di quartiere Crispi, abbia comprato in quel qui, nel 1956 la carta su cui scrisse “Il seme del piangere”… “Mia mano fatti piuma: fatti vela…”.


Fernando non c’è più a confermare o meno queste deduzioni. Peraltro, dei clienti, molti dettagli fin da subito non seppe perché lui – che in un posto fisso non seppe mai stare diventando ben presto rappresentante per la 3M della sua invenzione più di successo, lo scotch – al negozio ci mise delle commesse. Non è saputo mai stare fermo Fernando. E’ stato anche un maratoneta (passione trasmessa al figlio Federico” e, da pensionato, lo si incontrava spesso alla Fontana del Giglio di Villa Pamphili, sul suo piazzale diventato una palestra a cielo aperto con i suoi attrezzi ginnici. Soprannominato il “senatore” (ma per alcuni restava sempre l’“ingegnere”), alla sua morte gli è stato dedicato un pino nel suo amato parco che l’associazione che lo tutela ha permesso grazie ad una sottoscrizione popolare. A gestire la cartolibreria ci penserà la moglie, Anna Guerci. Fernando la incontra dopo poco che ha avviato l’attività e forse già pensava ad altri progetti nella sua irrequieta intraprendenza. Lei è una ragazza di piazza Bologna. Insegna nelle scuole elementari nelle estreme periferie romane. Un compito non facile, specie se ai primi incarichi, perché ci vuole polso con i bambini di borgata. Ma ad Anna non manca, sebbene sia riservata e dai modi gentili. Lei, la cui bisnonna Albina è cresciuta nell’orfanotrofio di San Michele a Ripa, sa bene cosa significa una infanzia difficile. L’irruente Fernando se ne innamora, si sposano e lei prende subito le redini della cartolibreria, che diventa in tutto e per tutto una sua creatura e dove, ancora oggi, ad 80 anni, accoglie i clienti con lo stesso sorriso degli inizi.Arrivano poi i figli Federico e Francesco che Anna cresce con l’aiuto di due anziane sorelle – perché Fernando è lontano per lavoro tutta la settimana –, che diventano praticamente zie adottive per i bambini che, dopo la scuola, passano i pomeriggi alla cartolibreria facendo i compiti e giocando sul marciapiede davanti al negozio (in quegli anni ’70 in cui piazza San Giovanni di Dio respirava un’aria da chiassoso paesone e non da spartitraffico). Fernando, anche se lontano dalla quotidianità della cartolibreria, a metà degli anni ‘80 – quando il suo lavoro di rappresentante si è focalizzato sui nastri magnetici – apporta però una novità molto importante facendola diventare una delle prime videoteche di Roma dedicata al noleggio ed alla vendita di videocassette di film, anche d’autore. Inizia così ad essere frequentata da registi, sceneggiatori, attori, cinefili. C’era chi attraversava la città per comprare ‘Il nome della rosa’, il film del 1986 di Jean-Jacques Annaud dal romanzo di Umberto Eco. Tra i frequentatori anche un trentenne Giuseppe Piccioni. L’era del VHS resiste fino al 1997 (e l’avvento del dvd) ma l’insegna di Raponi continua ad essere un riferimento importante con il suo catalogo d’autore, al pari della videoteca “Hollywood” vicino piazza Farnese, con cui avvia una collaborazione.

Nel 1994 inizia a frequentarla un 15enne appassionato di cinema: si chiama Elio Germano, studente del vicino liceo Morgagni, va in cerca di spazi alternativi e antagonisti per esprimersi, frequenta i nascenti centri sociali. E qui nella libreria conosce il ventenne Federico Raponi di cui diventa amico: il “fedingo” come Raponi si definisce nel suo romanzo autobiografico “Quando il fumo si dirada”, scritto in terza persona – con una evocativa foto di copertina del fotoreporter Tano D’Amico – testimone e protagonista dell’ultima grande stagione di movimentismo collettivo vissuta a Roma, con una ventina di spazi autogestiti (e ben 40 occupazioni), forti di un coordinamento unico in grado di dialogare con l’amministrazione pubblica sull’utilizzo del patrimonio pubblico. L’autore ha dedicato il libro al padre Fernando che ne ha letto le bozze ma non è riuscito a vederlo stampato.

“Riguardandola ora grazie al libro – racconta Federico -, la stagione che ho vissuto da ragazzo, tutta la decade degli anni ’90, è stata formidabile per il cinema, il teatro, la letteratura. E gli spazi autogestiti in cui queste arti potevano esprimersi erano seguite da una vasta comunità. Non c’era il web eppure partecipavano a migliaia. Ed oggi che ci sarebbe uno spazio enorme per chi fa attivismo, la partecipazione invece manca. Il virtuale non crea mobilitazione fisica ed i social frammentano ulteriormente le iniziative. Inoltre i giovani hanno paura perché è forte la repressione, le risposte della autorità alle occupazioni sono rapide e drastiche. Forse sulle tematiche ambientali il movimentismo giovanile può farsi più forte e compatto. Lo spero…. Bisogna poi anche considerare che l’Italia sta diventando un paese anziano. E anche stanco, ripiegato, individualista. Lo vediamo anche qui a Monteverde dove, peraltro, mancano spazi pubblici che impediscono una partecipazione ampia e per tutto l’anno. C’è largo Ravizza, piazza Scotti (dove abbiamo organizzato la notte bianca) ma occorrerebbe uno spazio fisico in cui ritrovarsi… Speriamo lo diventi il casale di porta San Pancrazio che dovrebbe aprire a breve. Intanto ho curato le presentazioni di libri nella serra del Vivaio Albero Blu, nello Spazio Sferocromia di via Pindemonte e partecipo ad eventi con autori che mirano a creare una comunità di scambio culturale, danno valore al libro, valorizzano il nostro tempo, hanno una valenza sociale culturale e quindi anche politica nel senso che riguardano la comunità. Nel mio lavoro ho sempre creduto nella cultura dal basso che considero un valore che fa crescere le persone e le comunità al di là dei referenti istituzionali, la base per costruire una comunità che sia anche propositiva. Ed in tal senso promuovo la cultura come strumento di progresso sociale, un impegno su cui sta convergendo mio impegno, dopo gli anni della militanza sociale”.

Anni che cominciarono a fine 1991 quando, studente universitario del movimento della Pantera, Federico Raponi guida l’occupazione dell’ex scuola media Licio Giorgieri. Tre prefabbricati dentro villa Pamphili che erano stati chiusi (l’ingresso era in via della Nocetta) ma che avevano ancora le utenze attive, un bene pubblico da salvare e restituire ad uso pubblico. Nasce così il centro sociale Askatasuna che ha fatto scuola nella storia della controcultura romana: luogo di sperimentazione creativa, fuori da ogni logica di mercato, attorniato da una natura resistente al cemento. “Mi ci impegnai con tutto me stesso” racconta. “In un quartiere in cui, allora come oggi, non c’era neanche un cinema. Purtroppo, qualche mese dopo, scoppiarono a Roma due ordigni contro obiettivi spagnoli e, siccome al nostro spazio avevamo dato il nome di ‘libertà’ in lingua basca, la polizia fece irruzione all’alba e mi arrestò, insieme ai miei compagni. Lungo il muro di cinta venne trovata una cassetta di plastica con delle bottiglie di benzina di cui non sapevamo nulla. All’epoca avevamo molti problemi con le frange di estrema destra… Quando ci arrestarono mio padre per caso si trovava a passare proprio di lì e riuscì a parlare con un funzionario della Digos. Il periodo a Rebibbia fu molto difficile e doloroso… Il pm chiese un 1 anno e 4 mesi ma fummo tutti assolti per non aver commesso il fatto. I prefabbricati vennero però rasi al suolo. Oggi c’è solo un prato…. Ma la mia militanza non si fermò. Andai in Chiapas, seguii la rivolta zapatista, andai in Kurdistan ed intanto incrementai il mio contributo a Radio Onda Rossa”. Sulle frequenze dell’emittente antagonista ed autogestita di via dei Volsci – che Raponi aveva preso a frequentare fin dai tempi del liceo, a metà anni ’80, all’epoca delle proteste contro la riforma scolastica Falcucci – Federico trasmette la musica dei centri sociali. “Con un mio amico di Monteverde andavamo con un Dat a registrare i concerti delle tante band underground, punk e hardcore, che suonavano nei centri sociali e li trasmettevamo in radio. Nel 1995 nacque così una mia rubrica sulla musica. Poi, nel 1996, seguendo il processo Priebke, nacque la mia rubrica sulla memoria, ‘Voci della Resistenza’. Rosetta Stame, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime delle Fosse ardeatine, mi mise in contatto con due partigiani Franco Bartolini dei Gap e Orfeo Mucci di Bandiera Rossa che sono stati due referenti importanti per il mio lavoro. Intanto avevo lasciato l’università e mi dedicai sempre di più al lavoro in radio. Nel 2000 avviai la rubrica sul cinema, che chiamai Visionari (che nel 2018 vincerà il Microfono d’oro), a cui poi aggiunsi RadioTeatro e che oggi si chiamano Tutta Scena Teatro e Tutta Scena Cinema, condotte in diretta, con tanti ospiti… Venne poi il rapporto con Mario Monicelli ai tempi del suo ultimo film, Le rose del deserto, del 2006. Divenne un grande amico della radio e dopo la sua morte, con la figlia Ottavia, facemmo il programma Sto ‘na favola, le favole alla radio lette da attori importanti come Valerio Mastandrea Paolo Rossi Neri Marcorè, Sermonti. Ed Elio Germano…”. L’attore, nel 2021, ad una presentazione del libro di Federico Raponi, ha affermato: “Il lavoro che fa Federico non ha uguali nel settore, seguendo centinaia e centinaia di spettacoli, fuori dalle dinamiche commerciali, e gliene renderanno merito chissà per quanto tempo a venire…”
Federico Raponi, dal 2013, ha preso anche in toto la gestione dell’insegna di famiglia – insieme al fratello Francesco che ha lasciato il suo lavoro di orefice – pure se la madre non manca mai di essere sempre presente: “Non posso stare lontana dai miei libri – racconta Anna -. In tutti questi anni abbiamo affrontato tanti cambiamenti. Oggi l’editoria per i bambini ci dà le maggiori soddisfazioni grazie alle giovani mamme, molto attente all’importanza della lettura. Se dovessi consigliare un titolo? L’arte di ascoltare i battiti del cuore di Jan-Philipp Sendker, un libro che continuo ad amare molto. Abbiamo un ampio scaffale dedicato alle novità sempre aggiornato grazie a mio figlio Francesco. Ed una clientela affezionata, tra cui il direttore del festival di Locarno Giona Antonio Nazzaro. Poi c’è il grande impegno di mio figlio Federico che promuove tante presentazioni di libri. Organizza tutto da qui…”. Quel suo “qui” è un piccolo ufficio all’interno della libreria in cui Federico Raponi registra in differita le sue rubriche radiofoniche.

“Una mattina di dicembre del 2017 ho detto basta, non riuscivo più a seguire le dirette in radio, ero stanco. Ero davvero deciso a lasciare ma tanti mi hanno convinto a continuare… L’ho fatto ma in modo diverso. Registro qui in libreria le interviste che vengono poi caricate sul canale youtube Tutta Scena 1 (che è anche un blog online). E qui ho curato due libri postumi su Marcello Blasi, in arte Pocaluce. La sua compagna e poi il nipote mi hanno consegnato la massa di dattiloscritti ed i file dei suoi lavori e ci ho lavorato come fossero mie ‘creature’. Ho esplorato il mondo di questo artista totale, che era monteverdino e ci ha lasciato nel 2010, a 62 anni: scrittore, poeta, autore teatrale, scultore, musicista (con la band dei Move). Si è composta così, insieme al mio primo libro, quella che chiamo la ‘trilogia del recupero’. Anch’essi autoprodotti, grazie anche ad una sottoscrizione popolare su Produzionidalbasso”. Il racconto utopico di “Nodi al pettine” del 2023 (con la foto di copertina della fotografa monteverdina Patrizia Pieri) e l’antologia “Voglio creare quello che vedo” del 2024 che raccoglie poesie, racconti e canzoni, impreziosita in prima e quarta di copertina da due ritratti di Blasi dell’amico Cristiano Rea, scomparso prima della stampa del libro, l’illustratore degli oggi mitici manifesti che annunciavano gli eventi dei centri sociali), di Pocaluce compongono un vivido mosaico che ci riconsegna uno dei protagonisti della controcultura romana, negli anni ‘70, militante del collettivo Monteverde in area Autonomia Operaia romana, negli anni ‘80 leader e cantante di una tra le esperienze musicali più interessanti dell’undergroud romano (insieme a band come A-10, Gronge, Garbages, Junkies, Geki, Roma KO). In via Vidaschi Pocaluce aveva affittato e insonorizzato un sottoscala per le prove dei suoi Move, che divenne punto di riferimento per giovani del quartiere.

Federico Raponi nel suo libro “Quando il fumo si dirada” (alla quinta ristampa e con oltre 60 presentazioni all’attivo) si descrive di “formazione libertaria senza Maestri ma per ricerca personale”. Un anarchismo sociale, il suo, che si esprime in queste altre sue parole: “Se per la propria vita non si immagina un progetto, un obiettivo, sono le scelte – prese o mancate – a tracciare un percorso. In ogni caso, col grande privilegio di averle a disposizione. Perché, in sintesi, la libertà è poter scegliere”.
Spettacolare descrizione del lavoro e dell impegno culturale e oserei dire passionale di Federico che ho visto realmente nascere crescere e sviluppare tutto quello che oggi ci regala…grazie
Beh… Concordo ed auspico in finale la nascita di una nuova sala di proiezione in un Centro Culturale MonteVerdino in memoria del Cinema Varietà delle Terrazze e delle storiche Associazioni a piazza Scotti e nelle Ville… Senza aspettare un altro Giubilare apporto di resilienza per la Nostra Amata Urbe Eterna! E daje Fedingo!
Che bella storia! Grazie per farcela conoscere…
Straordinario pezzo di una Monteverde ostinata e contraria, oppositiva, creativa, resistente. Grazie Federico hai contribuito a conoscere meglio lo spazio dove abito.
Un articolo straordinario che racconta la storia di un luogo, di una famiglia, di un’epoca, di una città. Una grande piccola storia di resistenza.