A nome di chi una voce non ha più: basta violenza contro le donne
Raffaella Leone
Non è perchè è stata uccisa dal marito qui, nella tranquilla Monteverde. Il flash mob è perchè ‘chi tocca una donna tocca tutte le donne’. Tocca, maltratta, malmena, ferisce, uccide, come è stato per Dona Shantini, arrivata morta al pur vicinissimo San Camillo, accoltellata la settimana scorsa dall’uomo da cui voleva separarsi. Riguarda tutte le donne: quelle che ‘ricevono regali e rose rosse per il loro compleanno’ e quelle che sono ingabbiate in una relazione tossica e quando dicono basta la pagano qualche volta con la vita.
Qui, sul marciapiede di via Greppi che nemmeno basta a contenere tutto il gruppo che deborda sulla via, ci sono le donne del quartiere, non solo per testimoniare, ma per far sentire la voce di chi una voce non ha più. E ci sono le rappresentanti delle associazioni storiche contro la violenza sulle donne, dalla Casa internazionale delle donne a Non una di meno da Be Free a Tutto un altro genere e ad altre associazioni insieme a ArtSharing Roma. Ma qui non conta l’appartenenza a questa o quella organizzazione, persino l’appartenenza di genere non conta per gli uomini che sono qui, mischiati alle tante donne presenti al flash mob.
‘Non ci aspettavamo tante persone, la cosa è cresciuta man mano’, dice Giorgia, appunto una ragazza del quartiere, testimone diretta della crescita di una coscienza sociale che non accetta più stereotipi e comportamenti feroci contro le donne. Perchè la violenza di genere è un fenomeno più diffuso anche di quanto emerge dalle statistiche, è internazionale e interclassista. Alta borghesia o emarginati, cresciuti nel cuore di quello che un tempo era l’occidente affluente o immigrati da quello che un tempo era il terzo mondo, non cambia il paradigma culturale, il modo di considerare la donna e il corpo della donna: un oggetto a disposizione del dominus di turno, una minus habens incapace di raziocinio e meno che mai di scelte autonome. Il lockdown ha aggravato le aggressioni, psicologiche e fisiche, contro le donne, le richieste di aiuto sono cresciute del 70%, sui social è diventato un piccolo eroe l’agente di polizia che ha capito che quella donna che telefonava per ordinare una pizza stava chiedendo aiuto, in realtà, e si è comportato di conseguenza.
Informare, denunciare, far crescere la cultura del rispetto di sè e dell’altro è indispensabile, lo ripetono tutte nei brevi interventi che si susseguono durante il flash. Parlarne a scuola, aggiungono gli studenti. Fabiana, troppo giovane per aver vissuto gli anni del femminismo vincente, è grata comunque a quel femminismo che le ha consentito di appoggiarsi alla rete dei consultori per orientarsi anche nelle scelte di vita personalissime. E ci sono le ragazze del liceo Montale di Bravetta e della succursale di via Paladini. Elisabetta spiega il progetto sperimentale realizzato dopo aver vinto un bando del Comune: ragazze e ragazzi hanno prestato i loro corpi per una serie di manifesti che riassumono il senso non solo di questo flash mob ma della radicale ribellione a modi di dire e di fare violenti.
Claudia lascia la sua rosa rossa tra gli altri fiori che ricordano il luogo dove è stata uccisa Dona. ‘Non la conoscevo di persona, dice commossa, ma nessuna merita di finire così’. E non è la sola ad avere gli occhi lucidi. Persino gli agenti della polizia municipale , quando alla fine rimuovono i nastri messi a protezione del flash mob, sembrano colpiti, forse nemmeno loro si aspettavano tanta gente.
Tutte le persone fotografate hanno dato il consenso all’utilizzo delle immagini, se qualche nome non corrisponde alla persona è colpa della mia memoria ballerina.