Il campo rom della Monachina prova a resistere all’ordine di sgombero della Raggi
di Raffaella Leone
Il passaparola in sordina un pò ha funzionato, sono più del previsto le persone in’ visita di solidarietà ‘ al campo rom della Monachina, sulla via Aurelia, sotto sfratto perchè il Campidoglio vuole superare le ‘strutture ghettizzanti’. Intento lodevole in sé-, ovviamente- ma finora messo in atto con metodi che stridono con la democrazia e prima di tutto, semplicemente stridono con il rispetto dei diritti umani.
‘Lei vede bambini che giocano nel fango, qui intorno?’ ,chiede provocatoriamente Luciano. Lui abita alla Massimina, vicinissimo al campo che alla mezzanotte del 30 giugno, al massimo entro luglio, dovrà essere sgomberato. A costo di mandare allo sbando e sulla strada le persone che ora ci vivono: donne, bambini, giovani, molti giovani, nati e cresciuti qui, quasi tutti scolarizzati, quasi tutti in cerca di un lavoro.
‘E’ difficile trovare un lavoro per chi ha la cittadinanza, figurati se dici che sei un rom’, dice amareggiato Alessio. Lui non se ne andrà, e non se ne andrà Silvano, che si è tatuato la parola gipsy, zingaro in inglese, ed è fiero e consapevole di appartenere ad un popolo antico, con una lunga storia di pregiudizi e persecuzioni (nei lager i nazisti hanno rinchiuso e ucciso anche rom e sinti) ma che nelle migrazioni dall’originaria India ha sempre conservato un forte senso di identità.
In questa parte del campo sono rimaste una settantina di persone, tutti rom, l’unico sinti , mi dicono ,è andato via da qualche tempo. Pochi, tra quelli che sono rimasti, hanno firmato il Patto con il Comune. Bisognava firmarlo due volte, ed era riservato a chi ha i documenti in regola, per avere la promessa di una casa per 18 mesi . E dopo? al Comune non interessa.
‘Io ho quattro figli, dove posso andare?, si disperava un padre. ‘ Che me ne importa, andate sotto i ponti’, ha risposto ( è documentato) la funzionaria incaricata dalla Raggi di notificare l’ordine di sgombero, e, nel caso, fare pressioni su chi non vuole andarsene. Parlando con chi ci vive, si capisce che nel campo in molti le hanno subìte, queste pressioni, qualche volta accompagnate dalla minaccia di far intervenire i servizi sociali per ‘prendersi cura’ dei minori. Una minaccia sempre odiosa, ma tanto più difficile da affrontare se rivolta a persone che hanno un senso radicatissimo, identitario, della famiglia.
No, non ci sono bambini che giocano nel fango tra queste baracche povere ma dignitose, ora piene di coperte piegate in attesa dell’ora fatidica. C’é animazione, si sentono richiami in lingua rom mischiati alle esclamazioni in italiano. Quasi una festa prima dell’addio. Gli unici un pò nervosi sono i vigili della polizia municipale e il funzionario della Polizia di Stato mandati qui a vigilare ( vietatissimo fotografarli). Entrano nel campo, per la verità con discrezione, controllano i documenti, restituiscono quelli che avevano trattenuti ora che la ‘visita’ si avvia a conclusione.
Dijana Pavlović, attrice, attivista e mediatrice culturale rom, spiega a tutti che la polizia municipale al momento dello sgombero ha l’ obbligo di non danneggiare nemmeno un mobile o una suppellettile, tutto va eventualmente posto sotto sequestro e conservato intatto. Lei sarà qui, ha già ottenuto di incontrare il Prefetto di Roma per quanto meno rinviare lo sgombero fino a quando non si troverà una casa a tutti gli sfrattati del campo, e intanto dà appuntamento a domani davanti all’ambasciata ceca, perché nella repubblica ceca la polizia, stando a un video ripreso anche da molti giornali italiani, ha ucciso un cittadino rom , Stanislav Tomas, proprio come in America George Floyd, soffocandolo con un ginocchio mentre era a terra.
Avvolti nella bandiera rom, gli abitanti del campo improvvisano un ballo sulle note trascinanti della musica gipsy, ed é un saluto che fa emozionare tutti, anche i temerari visitatori che a loro volta si improvvisano ballerini. ‘Oggi ho visto tante belle persone’, riassume Adolfo Larocca, che con l’associazione Amici della Monachina ha organizzato la visita al campo.
‘Io voglio morire qui’, mi dice Maria Visijerga, che da quasi trent’anni vive in questa baracca. E’ molto malata, la assistono figli e nipoti già grandi. Per far crescere i 7 figli ha fatto di tutto: ha chiesto l’elemosina, si è rivolta alla Chiesa, ha fatto la serva e la donna di pulizie. Forse ora è esausta, ma non si arrenderà. Nemmeno lei.