INCONTRI La regista Valentina Bertuzzi: Monteverde? Un incanto oscuro
Incontro con la regista e sceneggiatrice, tra le autrici più originali dell’“onda rosa” che sta rinnovando il cinema italiano
di Marina Greco
“Sono nata, cresciuta, scappata da, e ritornata a Monteverde Vecchio, che per me è sempre stato un posto un po’ misterioso, nonostante lo conosca come le mie tasche. Forse perché un po’ tutti i luoghi dell’infanzia hanno i loro strani sogni e ricordi remoti, ma anche perché credo che Monteverde in effetti abbia proprio una certa magia, un incanto, più o meno scuro, che influenza i sensi di chi lo attraversa. Non so quale sia il segreto di questo quartiere, ma so che non è mai stato uno spazio neutrale, e che forse, più che uno spazio è un tempo, o un incrocio di tempi, attraverso i quali le persone si incontrano, unite anche queste sensazioni che il luogo trasmette, senza dirselo, senza verbalizzarlo, forse anche senza saperlo, ma, credo, sentendolo”. A parlare è Valentina Bertuzzi, tra le figure più particolari della nuova generazione di registi donne che è il maggiore (e meno riconosciuto) elemento di novità del cinema italiano. Bertuzzi è autrice di conturbanti horror trascendentali e thriller psicologici che mescolano in modo originale fanta-tecnologia e metafisica, tesi a condurre lo spettatore in una sorta di “catarsi visiva”, selezionati e premiati in numerosi festival esteri, dal Los Angeles Women Film Festival al CyBorg Film Festival. Una autrice dal forte afflato internazionale ma con il cuore ben saldo nel quartiere romano amato da tanti registi, attori e musicisti come Bernardo Berolucci, Paolo Taviani, Nanni Moretti, Paola Cortellesi, Carlo Verdone, Michele Placido, Gabriele Lavia, Umberto Orsini, Nicola Piovani, Massimo Wertmuller, Elio Germano… “Camminare per le vie di Monteverde non significa mai solo andare da qualche parte, ma anche attraversare delle atmosfere, piuttosto vivide, che generano sensazioni e stati d’animo, a volte quasi ipnotici. Non sempre si colgono nell’immediato ma sono comunque suggestioni di una certa intensità, dovute forse alla visione periferica di architetture Decò e pensiline in ferro battuto e vetro che suggeriscono un riparo dalla pioggia serale agli albori del ‘900; o ai rivoli sotterranei del vecchio acquedotto che, chissà, con le loro sottili vibrazioni impercettibili sussurrano qualcosa al nostro inconscio; o alla geografia incongruente della collina, che sale, scende, scivola e a volte precipita in pendenze sempre un po’ sorprendenti e indefinite”. Parole che certo sarebbero piaciute al Pier Paolo Pasolini del “Pianto della scavatrice”: “Salgo i viali del Gianicolo, fermo / da un bivio liberty, a un largo alberato / a un troncone di mura – ormai al termine / della città, sull’ondulata pianura / che si apre sul mare”. Una “magnifica presenza”, per citare il titolo del film di Ozpetek il cui decadente villino che ne è stato set, si trova in via Cavalcanti, vicinissimo a dove oggi abita la regista, in una casa che accoglie peraltro una famiglia assolutamente unica. Valentina Bertuzzi è infatti sposata con Tim Willocks, grande scrittore noir tradotto in oltre 20 lingue (autore della saga cult di Mattias Tannhauser) oltre che sorella di Francesca Bertuzzi, affermata scrittrice thrillerista (nel 2011 il suo romanzo d’esordio Il Carnefice divenne subito un bestseller), con cui scrive anche le sue sceneggiature a quattro mani.
Tensione e delicatezza, visionarietà ed equilibrio, disturbo ed attrazione, impatto emotivo e scavo sensoriale, crudo realismo ed astrazione onirica. Il cinema di Valentina Bertuzzi è un raffinato ossimoro che conduce al cuore di una società confusa, ambigua, preda di giorni affannati e disumanizzati, toccando le corde più intime dell’inconscio che “la contemporaneità cerca di mettere da parte mentre invece io voglio farlo venire alla luce” come racconta dalla sua casa monteverdina da dove nascono le sue storie misteriose che emergono da una sorta di “isola che non c’è”, un luogo metafisico e dalle infinite potenzialità, un aldilà senza tempo, regno della creatività assoluta, che non a caso folgorò la Valentina bambina, a 4 anni, quando la madre, Carla Sambrotta, docente e saggista, la accompagnò a vedere, in un giorno del 1980, il Peter Pan di Walt Disney in quella che è oggi la Sala Troisi di Trastevere: “Verso il finale – racconta – mi alzo e mi allontano dalla fila delle poltrone. Ricordo la voce di mia madre, nella sala al buio, che mi dice: ‘Valentina! Ma dove vai…’. E io le rispondo che devo andare dietro lo schermo per combattere contro Capitan Uncino per salvare Peter Pan. Forse, ecco, quel volere andare dietro lo schermo è stato il primo istinto registico…”.
E le opere della regista hanno, peraltro, un comune denominatore nel passaggio tra mondo dell’infanzia e quello adulto, la più sorprendente (e talvolta atterrente) trasformazione umana. Protagoniste bambine, giovani donne, personaggi vincolati da legami profondi, di sangue, in una sorta di rispecchiamento con la stessa regista romana che è anche sceneggiatrice delle sue opere insieme alla sorella e con la quale ha anche scritto il nuovo film, in cui il thriller si espanderà in una forma ancor più metafisica, prodotto da Baires in collaborazione con Masi Film ed in procinto di essere girato. “Penso che ci siano molte paure che non sono state in qualche modo ancora indagate anche nel mondo femminile – prosegue -. D’altronde non ci sono tante autrici e registe che hanno esplorato questi temi nella storia del cinema, forse anche per autocensura, per vergogna ad esporre le proprie vulnerabilità come la maternità, la crescita, la paura della solitudine… Cose da cui ci siamo per anni protette e da cui forse invece adesso possiamo cominciare a sdoganarci perché condividere la paura è veramente l’unico modo per affrontarla, per dargli forma, capirla, studiarla, metabolizzarla e superarla”. Come fa Aida – la bambina che si inoltra nei bui corridoi della sua scuola alla ricerca della compagna scomparsa, in “Delitto naturale”, pluripremiato cortometraggio thriller mistery del 2019 (presente su Amazon prime) -, il cinema della regista romana è un esplorare, come spiega lei stessa, “paure anche molto femminili. legate alla crescita, all’ignoto, al menarca. Alla gioventù che si affaccia all’improvviso nella vita di una bambina, nel suo cammino verso l’età adulta”.
Paure delle quali le nuove tecnologie si fanno allo stesso tempo interpreti e medium. “Bisogna conoscere il mondo in cui viviamo e per conoscerlo bisogna sperimentarlo. E io lo faccio con il cinema che è un’arte fatta di sguardi, in un viaggio attraverso occhi anche digitali che ci guardano e ci riguardano. Dalla videoarte, al web, alla crossmedialità: telecamere, monitor, sguardi in cui ci raccontiamo e rispecchiamo, in un gioco di specchi”. Un percorso avviato nel 2006 con il corto di videoarte, Ultravioletto, con Alba Rohrwacher, “con cui iniziai a vincere nei festival ed utilizzai la prima Sony ad alta definizione HD, la prima camera digitale che era arrivata qui in Italia”) e proseguito nel 2009 con lo short “Corporate”, che ha vinto oltre trenta premi nel mondo, in cui Valentina Lodovini interpreta una manager che gestisce un “navigatore” che guida ogni emozione umana, passando per il videoclip dalle suggestioni steampunk del brano “Rain on me” della band italo-danese Istap ft Mammooth in cui appare un gps che indica la strade per la luna ed approdato poi, nel 2016, all’horror super-naturale della web serie “Ghost Cam”, primo progetto di “social group theater”, in cui i personaggi stessi sono profili di un (omonimo) gruppo facebook, girata tutta in lingua inglese, esclusivamente con webcam e distribuita negli Stati Uniti. Una opera sperimentale tutta incentrata su una app che permette alle telecamere degli smartphone di inquadrare una persona che sta per morire rivelando già il volto del suo spettro. “Un format che avevamo definito shock and short, con una pillola da un minuto ad episodio per 10 episodi, molto d’impatto” spiega Valentina Bertuzzi che sulla scia del successo dell’opera viene selezionata nel 2017 al Biennale College Cinema International, il vivaio dei talenti della Mostra del Cinema di Venezia, con il progetto Stellanera, la storia di una ragazza che, quando cerca di rimare incinta, viene invasa dal fantasma della propria madre.
Una personalissima visione è anche quella che Valentina Bertuzzi ha portato nella sua prima regia televisiva – le tre stagioni della serie per ragazzi Crush (La storia di Stella del 2022, La storia di Tamina del 2023 e La storia di Diego, uscita ad aprile, in onda su Rai Gulp e su Raiplay) – nata dal felice incontro con la showrunner di Stand by me, Simona Ercolani: “C’è stato un lavoro di profonda connessione fra me e le interpreti ed in questa finestra psicologica – in cui ho fatto uso di una camera molto respirata, in movimento, in cui tutto è visto attraverso gli occhi delle protagoniste – ho trovato in qualche modo anche me stessa, il mio sguardo, la mia cinematografia, ho potuto inserire dei momenti di crisi, sogni, allucinazioni, paure e visioni che fanno parte di un linguaggio thriller, di suspence, psicologico. E’ stata un’esperienza molto importante anche per capire meglio le mie corde perché per la prima volta andavo a girare un lavoro che non era di genere, una love story… Ma d’altronde in tutte le storie d’amore c’è un po’ di thriller, suspense, ci sono ostacoli, minacce da superare. Soprattutto quando si è giovani ed anzi più si è giovani più queste ombre si stendono sulle relazioni e possono diventare predominanti. Quindi cercare di fare luce anche su queste ombre è stata una missione molto coerente con la mia visione del mondo e della donna”. Valentina Bertuzzi, che ai suoi esordi ha dovuto confrontarsi con un settore in cui le registe erano una sparuta minoranza e che oggi fa parte della associazione Women in Film Television & Media Italia che promuove la parità di genere e l’inclusività nel mondo del cinema e della comunicazione oltre a sostenere l’Associazione Mujeres nel Cinema, sottolinea la forte accelerazione del contributo femminile nella settima arte che ha portato a risultati che non esita a definire “storici”, dal pubblico multigenerazionale del film campione d’incassi di Paola Cortellesi alla candidatura di “Vermiglio” di Maura Delpero agli Oscar, ai crescenti successi di donne nei festival internazionali. “Questa stagione rivoluzionaria, questa luce sul cinema italiano è una risorsa preziosissima su cui bisogna puntare. Ma proprio ora che abbiamo risorse, distribuzioni e visibilità per farlo, il decreto sul tax credit rischia di rallentare questo processo di evoluzione, sacrificando le produzioni con meno risorse economiche che sono in genere appunto quelle dedicate al cinema al femminile. Speriamo quindi che i decreti attuativi aggiustino il tiro, evitando di andare a sacrificare proprio quella finestra che in questo periodo sta brillando di più nel settore, sostenendo le registe ma anche le tante professioniste del nostro cinema, le autrici, attrici ma anche le musiciste che hanno ancora un rating molto basso di percentuale come colonne sonore. Oltretutto dagli ultimi finanziamenti selettivi risulta che le produzioni di registe sono più numerose di quelle dei registi. Un segno che è in atto un processo in cui si stanno riequilibrando i ruoli di genere anche in questo campo. E sono in tal senso fondamentali anche le piattaforme – una risorsa meravigliosa che non va assolutamente demonizzata, che permette di fruire di nuovi format, pensieri e sguardi a livello internazionale ed in maniera simultanea – che in qualche modo hanno sdoganato la scrittura e la regia al femminile. Ad esempio le prime policy interne di Netflix richiedevano un tot numero di registe, autrici ed attrici”.
Con originalità Valentina Bertuzzi risponde poi anche alla domanda su come far aumentare il pubblico in sala: “Lavorare di più sui generi cinematografici. Negli ultimi anni il cinema italiano li ha come snobbati, rallentandone molto la produzione. Eppure in passato, quando il nostro cinema eccelleva nel mondo, avevamo il western, l’horror, la commedia, le storie d’amore. Bisogna invece tornare ai generi, anche per attirare le nuove generazioni che hanno bisogno di identificarsi anche in una narrazione che faccia parte del loro background, con emozioni ed esperienze visive che sanno riconoscere”. Interrogata infine sui film “da portare sulla luna”, a testimonianza della sua personale e costante evoluzione, la regista decide di non citare autori che nel corso degli anni hanno nutrito il suo immaginario, da David Lynch a David Cronenberg, da Andrej Tarkowskij a Nicolas Winding Refn, da Kenneth Anger a Walter Hill. Eccetto Stanley Kubrik: “In assoluto il primo film che porterei sulla luna sarebbe 2001 Odissea nello spazio. Però siccome è un capolavoro assoluto – che forse è anche oltre la cinematografia – lo mettiamo appunto nello spazio, al di sopra di tutto. Dico allora Nosferatu di Murnau che indaga l’umanità attraverso l’amore, la morte, le ombre, la luce. E’ un film meraviglioso che, anche se lo vedi senza suono, ti prende l’anima, te la strappa, ti fa innamorare. Poi chiaramente tutta la cinematografia di Federico Fellini ma scelgo La dolce vita perché ha uno sguardo sull’umanità che preserva però un senso ‘wonder’ e che ricerca risposte attraverso l’arte. E poi Il portiere di notte di Liliana Cavani, un film sofisticato, complesso, meraviglioso e molto scuro che indaga le relazioni, la guerra, il post traumatico, con tanti temi importanti sintetizzati in un’estetica meravigliosa e diretto poi da una regista donna, perché sulla luna ci portiamo ovviamente anche loro!”.