Palestina, vigilia di una nuova Nakba?
di Cristina Mattiello Comitato Solidale e Antirazzista Monteverde
“Per mantenere la sicurezza per la quale i nostri soldati hanno perso la vita, dobbiamo operare un reinsediamento a Gaza con forze di sicurezza e coloni che abbracceranno la terra con amore”: lo ha detto il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi, del partito nazionalista del Likud durante una marcia organizzata per celebrare la nascita dello Stato di Israele (14 maggio 1948), e Ben-Gyir, ministro della Sicurezza nazionale, noto per le sue posizioni di estrema destra, ha precisato: “Primo, dobbiamo tornare a Gaza ora. Torneremo a casa, nella terra santa. Secondo, dobbiamo incoraggiare la migrazione volontaria degli abitanti di Gaza. E’ morale”. Dichiarazioni estremiste, certo, dalle quali gli stessi altri esponenti della sicurezza israeliana si sono ufficialmente dissociati definendole “immature e irresponsabili”. Difficile però, di fronte a quanto sta accadendo, non pensare che davvero questo sia il piano. Del resto, sarebbe il naturale culmine di un processo iniziato all’indomani di quella data: prima la Nakba (catastrofe) – la distruzione di centinaia di villaggi e l’espulsione di centinaia di migliaia di persone dalle loro case-, poi l’organizzazione di un regime subito configurabile come apartheid, negazione di diritti, vessazioni e violenze quotidiane, e ancora, nonostante varie risoluzioni ONU, un continuo ampliamento degli insediamenti di coloni, lasciati liberi di compiere soprusi di ogni genere. Gaza poi, che già era un “lager a cielo aperto”, oggi ridotta in larga parte a un cumulo di macerie. La risposta all’attacco criminale del 7 ottobre somiglia innegabilmente a una nuova Nakba.
Bombardamenti continui, quotidiani, per ormai sette mesi. Un accanimento contro tutti gli edifici (il 70% delle case sono state distrutte, molte con gli abitanti dentro). Sono state usate bombe ad altissimo potenziale, che perfino le norme statunitensi vieterebbero di usare in aree ad alta densità, ed è stato calcolato che complessivamente è come se la Striscia fosse stata colpita da una bomba atomica. E sono emersi segni di alcune bombe al fosforo bianco. Distruzione mirata di tutte le strutture scolastiche e universitarie, degli ospedali, attaccati più volte, se si tentava di farli rifunzionare, fino al dato attuale: l’80% delle strutture mediche è annientato, e comunque la mancanza di carburante e medicinali a causa del blocco ostacola lo svolgimento delle cure. Quasi 400 operatori sanitari sono stati uccisi. Ogni regola umanitaria è stata costantemente ignorata: sono stati attaccati campi profughi – in alcuni casi le tende sono state spianate dai bulldozer con persone ancora intrappolate -, uccisi operatori umanitari e colpite le loro sedi, giornalisti (circa 200), intellettuali, scovati spesso con programmi di intelligenza artificiale. È in corso anche un ecocidio, con la terra che difficilmente potrà riprendere a produrre – del resto l’agricoltura palestinese è da sempre presa di mira con distruzione di ulivi e coltivazioni e sottrazione e ostruzione sistematica delle fonti d’acqua.
E la fame, la fame come strumento di guerra, il più odioso e crudele dei crimini di guerra. Il 30% dei bambini a Gaza è denutrito, ci sono genitori che hanno visto morire i loro bambini per denutrizione e disidratazione. I neonati nascono tutti sottopeso e in condizioni difficili e non è possibile aiutarli adeguatamente. In uno degli ospedali di Rafah un neonato è morto per mancanza di alimentazione, quando il latte in polvere era nei camion bloccati a due chilometri. Del resto è dall’inizio che non c’è pietà per i neonati. Nel grande ospedale di Al-Shifa, all’inizio della ritorsione, 14 neonati in incubatrice sono stati abbandonati soli, tra la disperazione dei sanitari portati via a forza che invano imploravano i soldati di poterli prendere per trasferirli. Quello stesso ospedale di 4 piani, oggi tutto distrutto, i cui 400 pazienti sono tutti stati uccisi, e intorno al quale sono state scoperte fosse comuni su cui si indaga per appurare crimini contro l’umanità. Più di 7000 sono i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, la maggior parte in modo del tutto arbitrario, moltissime donne, decine i bambini, sottoposti a violenze e torture.
La crudeltà e la disumanizzazione del resto sono il segno distintivo di questa guerra. I social trasmettono di continuo gli orrori quotidiani, anche in Cisgiordania, con attacchi gratuiti ai civili, con l’esaltazione dei soldati davanti ai massacri. Dal conto macabro delle vittime continuamente in salita, mancano i feriti gravi, con le menomazioni e le mutilazioni che segnano una vita. E che sono decine di migliaia. Moltissimi, anche bambini, amputati – e senza anestetici. E il blocco degli aiuti: colonne di camion di chilometri ferme sotto il sole, perquisizioni maniacali e strumentali, con alcuni generi bloccati a priori tra cui gli anestetici e molti farmaci salvavita e oncologici. Si sono visti in Cisgiordania ragazzi seduti a terra davanti ai camion per bloccarli, in un clima di festeggiamento. E ora coloni che buttano giù pacchi di cibo e li distruggono saltandoci sopra.
Intanto a Rafah “il cielo è rosso” ogni notte, il massacro prosegue implacabile, anzi ha subito un’impennata. I tank sono pronti. Migliaia di persone stremate, senza più forze fisiche e psicologiche e in preda al panico “evacuate” da una zona e poi dalla stessa dove erano state mandate. Molte ormai sono sulla costa, ma è chiaro che nessuna zona è sicura e tutto è distruzione. È necessario per la “sicurezza di Israele” andare avanti? Quando la stessa vita degli ostaggi, anch’essi vittime innocenti, è messa in pericolo dall’attacco a Rafah. Quando lo stesso Segretario di Stato statunitense Blinken ha ammonito Israele che tecnicamente l’annientamento di Hamas è impossibile, e quando anche gli alleati più sicuri hanno dovuto ammettere che sono morti più civili che terroristi. Nell’era dei cellulari e dei social le versioni ufficiali rassicuranti non sono sostenibili. Dilaga infatti nel mondo la solidarietà dal basso, anche di voci ebraiche dissidenti, con centinaia di università in “Intifada”, una miriade di iniziative che tengono viva l’attenzione e le numerose prese di posizione del mondo della cultura e dello sport.
Ma la politica, soprattutto quella occidentale, non fa la sua parte. Solo blande parole, nessuna sanzione, nessun blocco reale nella fornitura delle armi. E sempre più uno scandaloso silenzio mediatico. Si muove il resto del mondo, che vota all’Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese, sempre bloccato dal veto statunitense. Si muove il Sudafrica, che dopo l’appello ripetuto alla Corte penale internazionale di giustizia per misure urgenti, sta tentando di avviare una mobilitazione globale per lo “smantellamento del sistema coloniale”. Altri paesi mostrano insofferenza, lo stesso Egitto ha detto che le relazioni si stanno guastando. Un isolamento internazionale che alla lunga conterà. Le macerie potrebbero ricadere su chi le ha provocate, se non capisce che solo una pace giusta, nel rispetto dei diritti di entrambi i popoli, può garantire la sicurezza.
(Fonti: Assopace Palestina, Ansa, Al Jazeera, Haaretz, The Guardian)
ndr la foto del titolo è da La Stampa