di Marina Greco
Il romanzo biografico del celebre critico musicale, diventato un piccolo cult, porta in copertina una foto scattata a Monteverde mentre, immerso in una vasca da bagno nell’agosto 1968, scrive un articolo per la rivista “Ciao 2001” amatissima dai giovani dell’epoca che poi, grazie a lui, inviato da Londra de L’Altra Domenica di Renzo Arbore, scopriranno il punk e la trasgressione fatta tv.
Romanzo biografico, flusso di coscienza, specchio per chi ha vissuto (o avrebbe voluto farlo) al ritmo di sesso, droga e rock ‘n’roll e che posta selfie accanto alla sua copertina, come un piccolo oggetto di culto. Cosa sia davvero “Nudo” – intima confessione che alterna registri vitalissimi e mortiferi, cruda e struggente – lo si capisce nelle righe in cui Michael Pergolani evoca il 1 giugno 1980 quando, a Bologna, presentò il più famoso degli eventi punk mai avvenuti in Italia. Tentativo (fallito) di riavvicinare il Pci alla sinistra extraparlamentare dopo le violenze del ‘77. Se Pergolani avesse scritto (solo) da giornalista musicale avrebbe certo rivendicato che il concerto dei Clash in piazza Maggiore era stato possibile anche grazie a lui: i suoi collegamenti da Londra che chiudevano “L’Altra Domenica” di Renzo Arbore su Rai 2 (attesissimi) avevano fatto conoscere per primi ai giovani italiani quella musica anarcoide che strappava a brandelli gli immensi orizzonti di speranza del rock progressive, che lasciava ruggire la rabbia interiore di chi sentiva chiudersi su di sé la tenaglia della crisi. I suoi 100 servizi londinesi – dal 1976 al 1979 – sono testimonianza sorprendente di quanto i livelli di (in)tolleranza mediatica nazionale si siano modificati. Sarebbe inimmaginabile oggi, in un programma tv domenicale pomeridiano (che peraltro convisse con le prime edizioni di Domenica In), quel “rolliamo insieme, rollate tutti, bye-bye” con cui nel 1976 Pergolani salutava il pubblico prima di mandare in onda lo spezzone live di “Let It Roll” degli hard core Ufo, parlando ad un microfono a forma di spinello con sulle ginocchia la ragazza che ad inizio servizio si era vista intenta a confezionarlo… Lei come tanti altri parte della “combact troupe” che concorse al “successo nel successo” di quell’hellzapoppin trasgressivo e fulminante: “tutti insieme sguaiati, ironici, oltraggiosi”, “capaci di grandi sacrifici come di grandi gozzoviglie”. “Ebbi favore popolare facendo sognare i ragazzi con ogni più assurda stravaganza inglese e con un pugno di bellissime ragazze”, scrive in ‘Nudo’, “ed “eravamo tutti un po’ gasati e un po’ tronfi perché le cose giravano per il verso giusto nonostante il mondo là fuori parlasse una seconda lingua fatta di rabbia, di cariche della polizia, di arresti, gambizzazioni, omicidi”. Lo capisce che stanno avendo successo quando, per una puntata in Italia, al confine del Monte Bianco, da due camion di militari, sente uno che dice “Oh c’è Pergolani” e tutti gli altri di rimando: “Porca mign…!”. Una esperienza che finirà – per il sollievo del “moltomolto disorientato” corrispondente da Londra Sandro Paternostro (che “si aspettava un giornalista in giacca e cravatta e Roma gli aveva mandato un extraparlamentare, un cialtrone, hippie, forse ateo, forse buddista, certamente finocchio”) – con l’apoteosi de “Il pap’occhio”: il film con una immaginaria scorribanda vaticana che riunì tutta la strampalata banda del programma di Arbore – da Mario Marenco ad Andy Luotto, a Roberto Benigni -, subito sequestrato, processato per vilipendio alla religione, amnistiato, mai mandato in onda.
Un “diabolico” dal cuore trafitto
Se “Nudo” fosse, appunto, una classica biografia, Pergolani rivendicherebbe poi di essere stato tra i neanche 100 (insieme ai futuri Joy Division, a Morrissey ed al fondatore della Factory Records) che videro il live dei Sex Pistols a Manchester, il 4 giugno 1976: la “scissione dell’atomo” per il punk ma anche tutto il rock a seguire. Invece Pergolani – che è pure fotografo, attore, sceneggiatore e quant’altro possa sfaccettare la sua natura di “agitatore” culturale – del suo stare di fronte ai “20mila figli di puttana punk” di Bologna ricorda solo di come gestì la “paura”. La folla copriva chi saliva sul palco con lanci di insulti, sputi, ortaggi, lattine (ne furono vittime tra i musicisti anche Raf ed il Litfiba Ghigo Renzulli) e arrivò sull’orlo della guerriglia dopo quasi 2 ore di attesa per Joe Strummer e compagni (il batterista Nicky Headon “si era perso per strada dietro una ragazza a Rimini” e per metà concerto venne sostituito da quello di un’altra band). Pergolani pensò allora che ad affrontare una tale masnada inferocita “poteva essere lui ma anche e soprattutto il diabolico da Londra”, come lo chiamava Arbore, lo “squinternato con la bombetta”, il trasgressivo bohemienne con “whisky e tant’altro”. E confessa che, quella paura di 40 anni fa, fu ben “più facile” da gestire di quella dello scrivere oggi il suo “Nudo” perché tra le righe “non c’è nulla che può nascondere novità e rossori, nemmeno la tenebra alcolica”: è la “paura di venire scoperto nel bel mezzo di un’azione indegna, la scrittura. Indegna perché indegno è colui che la compie”. Ed oggi – anche alla soglia degli 80 anni – in Pergolani c’è ancora quel “ragazzo triste e silenzioso che per poter vivere con gli altri si sforzava di essere sorridente e ciarliero”, “resistente all’alcol e bravo a fingere”: “Confesso che ho fatto il clown per nascondere la timidezza, ho fatto il buono per coprire il cattivo, l’anticonformista per camuffare le mie indole borghese”, scrive, “accidia, pigrizia, menefreghismo, inaffidabilità, infantilismo, narcisismo le doti di questo ultrà della patacca” che vende “nebbie psichiche, folate di passione, alcune taniche di lacrime salmastre, sentimenti solubili in bustina, risate nello specchio in frantumi”. “Paura” è una parola che ricorre spesso nelle 457 pagine del libro, da quando i genitori lasciano che il piccolo Michael cresca nei suoi primi 5 anni di vita dai nonni materni, a Lubecca: a Christine e Hans, “a loro soltanto devo se non sono affogato nelle lacrime”, se non diventa “uno dei tanti bambini pazzi sbucati dalla guerra”. E scrive: “Credo che fu allora, durante quei 5 anni, che diventai un bambino stupido, pieno di paura e divenni l’uomo che sono diventato”, dal cuore trafitto da “pietre aguzze e spine”.
L’archetipo di Cleopatra
Trapela poi fortissima dalle pagine di “Nudo” (che evoca spesso il sincopare della letteratura beat) la tentazione dell’autore di gettarsi in un “cut-up” catartico da quando, nel 2012, comincia “l’era glaciale” dei lutti, il “tempo delle condoglianze” per la perdita delle persone care, “dello strazio privato”, “della pena intima e puntuta che ti penetra tra le costole”, del voler “urlare a squarciagola, se non fosse che l’urlo mi si è ridotto ad un rantolo catarroso”. Ecco allora emergere tra le pagine il desiderio di “sprofondare tra alghe a forma di lettere e lì re-stare, dormiente su un tappeto di parole che danzano come scaglie organiche nella pacata corrente del grande fiume e magari godermi un’erezione lasciva scivolando in silenzio assoluto tra le mangrovie, tra le parole di eros e thanatos”. La letteratura tentando così di lenire quel sentirsi a pezzi in un “corpo sconsacrato”, “sotto le unghie, tra i peli della barba”, “tra le dita dei piedi, nel mezzo della lingua”, “sepolto dentro il bozzolo fonoassorbente come una mummia nel sarcofago sperando che mi venga a risvegliare con un bacio d’amore la mia Cleopatra”.
La Swinging London
La sua prima Cleo lo portò a Londra, ventenne, al ritmo di “Barbara Ann” dei Beach Boys, mentre le ragazzine impazzivano per i Beatles e la Swinging London era un “putiferio” mai visto di mods, rockers, hippie. La capitale della ribellione adolescenziale, dal 1968 diventa anche la capitale del giovane Pergolani, tra “perdigiorno di talento”, in un pullulare di eventi, concerti e soprattutto vernissage di mostre pop art. Ci andava perché “si mangiava gratis”, “amavano gli italiani” e, nei fatti, l’arte era stata sua compagna stretta nell’estate precedente alla partenza, seppure nella forma irregolare che lo accompagnerà da sempre. Era infatti reduce dalla “tana artistico- ormonale” di via Peretti, a Trastevere (condivisa con gli amici artisti Ovidio Federici, Sandro Graziani, Carlo Ambrosoli e Bruno D’Amato) sulla cui porta, in un pomeriggio di giugno, si era affacciato quella “specie di dio” di Jimmy Hendrix per poi non andarsene più cosicché, tra “boccate da sfascio sulle note di Hey Joe, Purple Haze e Wodoo Child”, all’album “Experience” il gruppo di amici aveva conferito il “titolo honoris causa di cannone d’oro”. Era poi andato al Festival dei due mondi di Spoleto con la compagnia teatrale di Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann lavorando anche come cameriere per i turisti americani a cui serviva hamburger “in salsa di catarro romanesco”. Unico a salvarsi dal suo vendicativo “sputazzo go-back-home-yankee” lo sceneggiatore Israel Horowitz con cui Pergolani fa amicizia e dal quale poi, a Roma, nella suite dell’Excelsior pagata da Dino De Laurentiis, viene nutrito a filetto, dolcetti ed una “quantità immonda di Barbera”. Qui, tra “interminabili chiacchierate alle metedrina” scrivono insieme un atto unico con protagonista Gesù: “Una figata che purtroppo non c’è più perché l’ho perso porca vacca!”, forse lasciato nel bar trasteverino di via dei Genovesi, forse tra i dischi usati dello storico negozio “Revolver” o forse sotto il “passionale hurricane” del letto di Albertina, in quella mitica estate sessantottina.
La foto della copertina scattata in via Fonteiana
E’ di questo periodo la foto della copertina di “Nudo” dell’amico Fabio Ciriachi, fotografo e scrittore. Agosto 1968, Roma arroventata: finalmente “eravamo passati ad abitare da un cesso di casa ad una casa borghese con un cesso coperto di marmi” ricorda. Era in via Fonteiana, a Monteverde Vecchio: “Ci sono io nudo nella vasca da bagno, seduto su una bacinella di plastica immersa nell’acqua”, ricorda, “la macchina da scrivere poggiata in equilibrio nell’angolo della vasca per poterci scrivere, non so bene cosa, forse un pezzo per Ciao 2001 forse quello su una setta di loschi americani che giravano per Campo de’ Fiori coperti da mantelle nere e tutti con un lupo alsaziano al guinzaglio. C’è poi Fabio in mutande seduto sul water e in piedi Petta-bella-tetta la sua ragazza di allora in sottoveste nera con una spallina su e una giù”, “c’è un sentore di promiscuità in quel bagno” col “nostro continuo tentare di non provare vergogna delle nostre nudità”, “ci impegnavamo tous les jours, e con una sorta di sacro ardore, a dare un po’ di tuzze ai tanti tabù che ci portavamo appresso”. Tutto intorno è in azione il “grimaldello” – la pillola – che va scardinando tra le giovani donne la paura di fare sesso. A Roma, “dove se prima non te la davano neanche a morire ora ti venivano dietro pure le pischellette” ma nella Londra in cui Pergolani sbarca, a fine anni ‘60, per rimanervi fino al 1980, la rivoluzione è totale: “Donne che non si depilano la passera ma che la profumavano di patchouli”, Manuela dal “viso rinascimentale” ed il “talento di vivere a letto senza provare colpa, come se il mondo fosse tutto lì su quel lenzuolo”. E la sua bionda Cleo dal “ventre d’ambra e cannella”. Se la “british-pioggerella” si faceva poi troppo fitta il pensiero correva alle femmine “dagli occhi neri e profondi come l’inferno” con “baci al miele d’eucalipto e visioni di frutta colorata”. Tra queste splendide apparizioni femminili spunta anche – tra le tante esilaranti pagine di aneddotica pergolanese – la surreale “mum” di Rick Wakeman, in vestaglia di seta e bigodini rosa, che lo accompagna nella tanto grandeur quanto “burina” casa del tastierista degli Yes, in uno sfoggio di credenze, vasellami e bambole. Lo intervista dopo l’uscita di “The Six Wives of Henry VIII” del 1973, suo primo album solista. Pergolani quell’anno – con Giancarlo Messora – ha fondato l’agenzia Campus che, in sei anni, scorrazzando con una Triumph Tiger 750 e scrivendo da inviato per Ciao 2001 e Playmen, fotograferà 2mila live, un numero immane di party, tutta l’eclettica, stravagante, irrefrenabile umanità dei club londinesi. Innanzitutto gli amici: George Harrison, Peter Sinfield paroliere di “In the Court of the Crimson King” dei King Crimson (con cui è tra i 500mila del concerto dei Rolling Stones del 5 luglio 1969 ad Hyde Park in memoria di Brian Jones) e l’ancor più vicino Mark Bolan con cui trascorre una notte con alcolici, “tre grammi di colombiana” e le riprese tv degli incontri di Muhammad Alì alla vigilia dell’ultimo giorno di vita del frontman dei T. Rex: morirà il 16 settembre 1977 schiantandosi contro un albero, “guidava la moglie, non aveva mai preso la patente perché temeva di morire giovane in un incidente”. “Nudo” è un susseguirsi di passaggi epocali nella storia della musica rock. Ecco allora che, pur essendoci ad Amsterdam in quel 17 settembre 1969, Pergolani si perde, ottenebrato da una “torta all’hashish”, il concerto degli esordienti Pink Floyd ma ascolta, nel 1972, l’ultimo Ziggy Stardust di David Bowie, nel 1973 il “Get up, Stand up” di Bob Marley e Peter Tosh e, nello stesso anno, è tra coloro che vede la batteria di Keith Moon salire un metro sopra il palco del Lyceum al concerto di lancio di “Quadrophenia” degli Who. Nel 1978 (forse) l’intervista più traumatica, tra le sue tante, per l’ermetismo del suo intervistato che riesce però a scardinare in diversi passaggi: “Cosa pensi del sistema?” chiede a Frank Zappa: “Una palla… la cosa peggiore è che è costituita di gente come me, come te, di gente regolare”.
Francis Bacon e la “lettera d’amore” perduta
Pergolani mette così insieme un archivio unico che, al ritorno a Roma, gli sarà trafugato. Si salvano però le foto di Francis Bacon, del 1972, tra le rarissime nel suo atelier londinese: “Ci misi tre mesi per ottenere un incontro. A facilitare le cose il fatto che gli piacevo fisicamente. Una sera mi invitò a cena. Prima mi esibì in un pub e poi mi portò in una ‘boite’ francese a South Kensington. All’uscita mi chiese di andare al suo studio ma io barcollando, ero ubriaco, me ne andai e lo lasciai in mezzo alla strada. Il giorno dopo trovai una lettera sotto la porta di casa in cui Bacon mi scriveva che non voleva più vedermi perché soffriva troppo. Una vera lettera d’amore… Che fine ha fatto? Boh… l’ho persa. Già… se fossi stato più furbo mi sarei fatto fare un ritratto. Ma io non sono mai stato uno che approfittava. All’epoca dell’Altra Domenica se capivo che una veniva a letto con me per sfruttarmi, mi alzavo sul più bello, mi vestivo e me ne andavo per umiliarla. Mi sono inimicato diverse donne così…”. E’ del 1976 quell’“Arbore chi?”: “Quando mi chiamarono per partecipare alla sua trasmissione non sapevo neanche chi fosse. E’ capitata ‘sta cosa e non ho sofferto quando è finita. Non mi sono mai sentito parte dello show-business della Rai. Con ‘Domenica in’ è durata pochi mesi, non andavo d’accordo con nessuno, eccetto Frizzi. Pure nel cinema è andata così… non so muovermi, assecondare. Ho sempre fatto solo le cose che mi piacevano”. Così andò anche alla festa, nel 1978 a casa Arbore, invitata mezza l’Altra Domenica, attori, musicisti, un Paolo Villaggio “in disparte, sprofondato come un piccolo Buddha nostrano in una poltroncina del giardino”. Pergolani fa “rosicare di brutto” il suo ospite che “forse ancora oggi ce l’ha con me…”. Si mette a ballare con Mariangela Melato, all’epoca compagna di Arbore, “fino allo sfinimento”, “non l’amato jazz del padrone di casa” ma classici del rock and roll come “Blue Suede Shoes” di Elvis Presley e “Good Golly Miss Molly” di Little Richard. E gli fa fuori poi tutta la riserva di champagne: “Da bere c’era solo coca-cola ed aranciata. Scherziamo? Abbiamo scovato quelle bottiglie…. Quando ne finivamo una la sostituivano con un’altra di nascosto e così fino alla fine. Il giorno dopo una telefonata di fuoco: ‘solo tu potevi fare una cosa del genere!’. Gli feci avere un Mathusalem da 6 litri”.
Il ritorno a Monteverde Vecchio
In “Nudo” Pergolani dissacra però anche i suoi stessi eccessi, non mancando di ironizzare sul fatto che la bottiglietta di gocce per il naso è stata “la più antica tra le mie dipendenze”. Il sesso? Era “un modo per sapere che esistevo e un antidepressivo, che mi serviva per il morale, eiaculazioni per non sentirmi triste e per tenere tranquillo il boom-boom del cuore”, “ci sentivamo così forti, così scaltri, così potenti, così unici”, “vivevamo in una costante esaltazione che riempiva l’aria, la mente, il cuore, ma anche le nostre braccia, le mani, le cosce…era così potente questa frenesia che avevamo paura che gli altri se ne accorgessero”. A fargli lasciare a Londra moglie e figlio, a farlo tornare a Roma – dove l’acuto critico musicale mai ossequente alle case discografiche arriverà a sfidarle apertamente come talent scout nel programma “Demo, l’Acchiappatalenti” che, dal 2002 al 2014, su Radio Rai Uno, seleziona 45mila cd di 1500 artisti (fino alla chiusura improvvisa sotto la mannaia del web ammazzatalenti) – è una nuova Cleo. Pergolani la ritrae mentre dorme, il 14 gennaio 1985, suo 40mo compleanno. E’ tornato ad abitare a Monteverde Vecchio, in via Ugo Bassi, tra villini che rimandano a quelli londinesi: “Le sue ascelle ricordano un sottobosco carico di umori di profumi, la sottile peluria bruna che le ricopre il seno fino all’attaccatura del collo è la più squisita avventura dei sensi”. Dalla finestra, il panorama di Roma imbiancata da una spettacolare nevicata; tutto intorno il quartiere dalle strade in salita diventato un “villaggio isolato”. La stessa finestra, esattamente il 14 gennaio di un anno dopo, si affaccia su una Roma non più magica ma che soffre il caos e lo sfacelo e che, implacabile, rispecchia l’intero orizzonte della sua vita: “Da qui i pensieri partono per navigare lo sconosciuto mare dell’amore e del rancore, dell’incuria e del disprezzo, se avessi vent’anni scenderei per strada e correrei, correrei, correrei fino a farmi scoppiare il cuore”. Fughe repentine della mente, – come quella volta che l’immagine della spalla della madre malata “con quel bozzetto sotto pelle che nascondeva quella provvidenziale pompetta piena di temgesic per farti soffrire di meno” emerge dal labirinto di lamiere roventi di un esodo estivo dell’Autostrada del Sole, tra “gente sonnambula, stralunata, fastidiosa come pidocchi spinti a saltare dal signor tuttocompreso”, costretti a strisciare “a causa dei mugugni del loro intestino-indestino, delle meschine invidie che li strozzano” e “del sacerdote rata senza interessi che sorride”.
Il Circolo Pickwick di viale delle Medaglie d’oro
Eppure, anche nei passaggi più dolenti di “Nudo”, irrompe dalle pagine sempre la stessa “ingorda fame” nella vita. La stessa che oggi porta Pergolani ad esplorare nuovi sentieri sonori e visivi, spostando lo sguardo a levante: i suoni siberiani, giapponesi, coreani, le foto in albumina di una fumatrice d’oppio cinese (“Sarei voluto nascere orientale, tra estetismo, grazia, fascino…”). La stessa che si ritrova anche nei malinconici 23 racconti in forma di “piccoli blues metropolitani” ispirati da “Solitude” di Billie Holiday, che rispecchiano un ritmo interiore comunque ironico. Anche in quel pensare ad un’opera da chiamare (quale estremo sberleffo) “De Profundis”: “Ho cominciato a riflettere sul quando e come mi troverò davanti a Lei, davanti all’inimmaginabile. L’ultimo disco di Bowie è di una bellezza stratosferica, ti lascia senza respiro. Vorrei fare la stessa cosa: chissenefrega se lascia senza respiro…. Anzi il chissenefrega vorrei issarlo come una grande scritta al neon in alto nel cielo. Estetizzare la mia morte è un modo per poterla accettare, perché è inaccettabile. Sono nato per quale motivo? Per un caz … Siamo un nulla nell’universo, non siamo consapevoli di niente, noi e le nostre animule… Questo De Profundis potrebbe crescere in un’opera collettiva, perché cambi per diventare una cosa, che poi diventi ancora un’altra cosa…”. Magari nelle mani degli amici e della “tanta gente interessante” che partecipano al Circolo Pickwick, l’incontro del giovedì in un bar in viale delle Medaglie d’oro. Qui, con romanità sorniona, si esorcizza il dolore della “abrasione sempre pronta ad infettarsi” con cui Pergolani descrive la sensazione del “gelo creativo” e si sperimenta una “vita da ottimisti e non da depressi cronici”. Anche se poi si finisce per “discutere di questo caz… di paese che i suoi figli ha ridotto a fantasmi” e masticare tramezzini e delusione “perché avevo creduto di stare lì per partecipare alla creazione di un mondo migliore, lì per sconfiggere le superstizioni e l’ignoranza e invece mi rendo conto di avere toppato su tutta la linea”. Tanto che neanche il suo celebre conterraneo (di Lubecca) Thomas Mann, il “mago” che Pergolani evoca nei suoi scritti, riesce a convincerlo che l’arte sia in grado di “mutare l’abiezione in purezza”, “come fosse l’emanazione di un dio, anzi come un dio essa stessa, più forte dell’artista se la si considera frutto d’un destino a cui non è possibile sottrarsi”. Forse dimenticando la definizione di beat – la frequenza della libertà assoluta costantemente ricercata nella polifonia narrativa di “Nudo” – data da Gregory Corso: “Il beat è il viaggio dantesco, il beat è Cristo, il beat è qualunque uomo, qualunque uomo che rompa il sentiero stabilito per seguire il sentiero destinato”. E, su questo bivio, meglio allora per il nostro eterno “enfant terrible” della critica musicale nazionale chiudere la conversazione ricorrendo al suo liberatorio sarcasmo: “Io, nudo, lo valgo tutto…”.