Una modifica pericolosa alla legge sull’export di armi italiane

di Luciano Ardesi, vicepresidente CIPAX (Centro interconfessionale per la pace)

Si è svolto giovedì 13 giugno nella Sala Buttinelli della Parrocchia della Trasfigurazione l’incontro “Basta favori ai mercanti d’armi”, organizzato dal Comitato Monteverde per la Pace. L’iniziativa si inserisce nell’omonima campagna promossa dalla Rete italiana pace e disarmo (RIPD) per difendere la trasparenza relativa alla vendita di armi italiane rimessa in discussione dall’iniziativa di modifica della legge 185 del 1990 che regola l’export di armi italiane. Grazie a tale legge il governo consegna annualmente un rapporto al parlamento nel quale risulta l’elenco degli istituti di credito che finanziano tale export e sul quale è nata da anni la campagna “Banche armate” promossa dalle riviste missionarie: Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di pace.


L’incontro è stato animato da due interessanti interventi di Monica Usai di Libera, l’associazione contro le mafie fondata da don Luigi Ciotti, e di Chiara Bannella della Fondazione Banca Etica. Il quadro che emerge dalle relazioni e dal successivo ricchissimo dibattito è davvero preoccupante. Val la pena ricordare prima che la legge 185 venne approvata nel 1990 a seguito di una convinta mobilitazione dei movimenti per la pace, dopo che l’Italia si era distinta per l’export di armi a paesi in guerra come Iran e Iraq, o a paesi sotto embargo come il’ Sudafrica ancora governato dal regime dell’apartheid. La legge italiana ha poi aperto la strada a una regolamentazione più severa in ambito dell’Unione europea.

Naturalmente non è una legge “pacifista” in quanto permette comunque l’importazione, l’esportazione o il transito di armi, tuttavia ciò avviene sotto il controllo dello Stato, in conformità con la politica estera italiana, tanto è vero che il mistero degli Esteri veniva ad assumere un ruolo importante. Il punto centrale è che la legge vieta l’export di armi verso i paesi che sono in guerra o che violano gravemente i diritti umani. Non mancano però dei punti di debolezza come la liberalizzazione dell’export di armi leggere, che pure hanno un ruolo fondamentale nei conflitti locali, oppure la possibilità di vendere armi ai paesi con cui ci sono accordi militari con l’Italia, a prescindere che siano o meno in guerra o che violino i diritti, come accade con l’Egitto e con Israele per citare la zona oggi più calda del Mediterraneo. Infatti gli accordi militari sono diventati il modo più diffuso per aggirare la legge 185.
La legge 185 è già stata emendata nel corso del tempo, lo scorso anno però il governo ha preso l’iniziativa di una radicale revisione che la svuota delle sue principali prerogative, in particolare la trasparenza. A fine febbraio il Senato ha approvato la modifica respingendo tutti gli emendamenti presentati dalla RIPD, anche quelli che pure la presidente della Commissione esteri del Senato si era detta favorevole ad accogliere. Il testo è ora all’esame della Camera che, dopo le elezioni europee del l’8-9 giugno, vorrà certamente riprendere e accelerare l’iter per concluderlo entro l’estate. Per questo è ripartita la campagna della società civile.
All’origine dell’iniziativa del governo ci sarebbe la necessità di snellire i controlli sull’export di armi e di favorire una maggiore sicurezza dell’Italia. Entrambe le ragioni sono pretestuose. Sul primo punto la legge prevede comunque una relazione al governo, ma non più al parlamento, quindi l’acquisizione di dati rimarrà e sarà dunque necessaria, quello che non si vuole è far sapere al parlamento, e quindi rendere pubblico, il quadro delle esportazioni e dei finanziamenti che le sostengono. Quanto alla sicurezza dell’Italia è chiaro che la vendita di armi a paesi in guerra destabilizza il quadro geopolitico e quindi mette in pericolo proprio la nostra sicurezza.

Questo è tanto più vero se si pensa all’intreccio tra commercio di armi, finanza e corruzione. Secondo i dati del Sipri, l’Istituto di ricerca svedese che ogni anno pubblica le statistiche sul commercio mondiale di armi, questo traffico contribuisce in maniera sostanziale alla corruzione, e all’espansione del fenomeno mafioso, per la gran mole di flussi finanziari che genera. Se si tiene conto della trasformazione del fenomeno mafioso in Italia come nel mondo sempre più legato ai flussi finanziari, ci si rende conto di quale potenziale pericolo costituisca l’abbassamento dei controlli e della trasparenza.
A questo proposito merita un’osservazione anche l’automutilazione che il parlamento compierebbe verso se stesso. La mancata acquisizione dei dati, oltre a lasciare la società priva di informazioni essenziali, toglie al parlamento una sua funzione fondamentale quella del controllo. Tale fatto è in linea del resto con la tendenza in atto che vede prevalere la produzione legislativa da parte del governo su quella del parlamento.

È chiaro che la spinta a proseguire su questa strada viene dalla lobby dei fabbricanti di armi. In un contesto di guerre come quello che stiamo vivendo, questa spinta è ancora più forte perché le industrie realizzano in questo modo fortissimi guadagni. La loro posizione si vorrebbe giustificata dal fatto che oltre agli affari, la produzione di armi consentirebbe la creazione di posti di lavoro. Tale assunto è stato recentemente smentito dall’assemblea di Leonardo, la maggiore impresa italiana di produzione di armi. Rete italiana pace e disarmo e la Fondazione Banca etica hanno partecipato, in qualità di azionisti “critici”, attraverso un simbolico possesso di alcune azioni, all’assemblea della Leonardo in modo indiretto, potendo porre domande scritte, poiché la riunione è rigorosamente a porte chiuse. Le risposte sono spesso coperte dalla riservatezza, ma dalle informazioni ricevute risulta comunque che la produzione militare della Leonardo ha preso il sopravvento su quella civile, ma l’occupazione in Italia è diminuita nel 2023 del 24%. Malgrado quindi l’acquisizione di nuove commesse militari, tra le quali spicca la partecipazione alla realizzazione dei nuovi caccia F-35 e per i quali il governo promesso 10.000 nuovi posti di lavoro, il numero dei lavoratori della Leonardo si è dunque ridotto.

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